Arezzo, 19 settembre 2018 - «Tre minuti, ci sono appena tre maledetti minuti di tempo per intervenire in caso di attacco cardiaco improvviso e passano velocemente. E’ inammissibile che una struttura sportiva non si sia dotata di un defibrillatore».

E’ a dir poco infuriato Massimo Mandò, il responsabile del Deu Asl Toscana sud est, dopo la morte del 64enne  Romano Scala avvenuta lunedì. Da sempre è in prima linea nella battaglia per dotare il territorio di una rete capillare di apparecchiature salvavita. «Ora basta – sbotta – da anni insistiamo sulla necessità di avere simili strumenti nei luoghi in cui si pratica lo sport. Eppure questa regola di buon senso ancora non è entrata nel sentire comune.

Tra l’altro la legge regionale 68 del 2016 è chiara: i centri ricreativi o agonistici, che siano campi di calcio, da tennis, palestre o quant’altro, devono possedere un defibrillatore, altrimenti vanno chiusi. Se lunedì fosse stata rispettata la regola forse Scala avrebbe potuto salvarsi come ci dimostrano due casi analoghi avvenuti nell’aretino. Vittime di malori prontamente defibrillati e che ora vivono».

Un fiume in piena Mandò che punta l’indice anche contro chi dovrebbe vigilare per l’applicazione della normativa: «In Valdarno – rammenta – funzionano 220 defibrillatori, 900 nell’intera provincia. Si trovano ovunque, nei luoghi pubblici, nelle piazze o nelle scuole, ma tanti gestori di impianti sportivi non si sono adeguati alla legge. I Comuni a mio avviso dovrebbero intensificare la sorveglianza e, anzi, lancio un appello alle amministrazioni comunali a vigilare».

Oltretutto l’utilizzo è semplice: «Il loro funzionamento è elementare, una voce guida spiega con chiarezza le procedure da osservare. Insomma, la tragedia del Calambrone è la dimostrazione che il lavoro non è finito, che dobbiamo rimboccarci le maniche e tenere alta l’attenzione».